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Francesco Casetti per Schermi in Classe

“Da un punto di vista generale c’è una permanenza del cinema. Il cinema non è diventato come l’opera, non è un’arte popolare che è diventata di élite. Il cinema continua a essere un’arte viva per una massa di spettatori non necessariamente specializzati. Su questo sfondo ci sono comunque dei processi di trasformazione che conviene seguire.”

Francesco Casetti

 

Francesco Casetti, Professor of Humanities and Film and Media Studies, Yale University intervistato da Enzo Bevar per la pubblicazione di Schermi in Classe. Media literacy ed educazione alla cittadinanza.
Il testo, curato da Giulia Tosoni e Roberta De Cesare per Ed-Work, edito da Gruppo Abele, non è in vendità. Per riceverlo, scrivi a sic@cinemovel.tv.


Multimedia, cinema e cittadinanza al tempo della post-verità

Professore, le chiederò di rispondere a qualche domanda rispetto al tema dell’immagine e della multimedialità, anche con riferimento all’educazione dei più giovani alla cittadinanza e alla consapevolezza critica rispetto ai fenomeni della nostra società. Incominciamo dal cinema: all’interno dei suoi libri ha scandagliato i mutamenti in atto nel sistema-cinema, ponendo l’accento sulla sua “rilocazione su altri devices e in altri contesti”. Il cinema sta quindi in parte migrando, espandendo i suoi confini oltre i limiti della sala cinematografica. A livello globale, dove sta andando il cinema? E come questi mutamenti incidono sulla sua tradizionale potenza comunicativa e culturale?

E’ una domanda tosta e ampia. Prima parlo del cinema e poi accenno a quali aspetti mi sembrano importanti. Da un punto di vista generale c’è una permanenza del cinema. Si continuano a produrre film nuovi, e il pubblico continua ad affollare le sale. Anzi, le sale aumentano, come in Asia, rendendo il consumo theatrical sempre appetibile. Il cinema non è diventato come l’opera, non è un’arte popolare che è diventata di élite. Il cinema continua a essere un’arte viva per una massa di spettatori non necessariamente specializzati. Su questo sfondo ci sono comunque dei processi di trasformazione che conviene seguire. Ad esempio, qualcuno come Spielberg vede in atto una specie di scissione del cinema: da un lato c’è il cinema evento, quello che che si consuma nelle sale, fondato sulla immersione in un ambiente massimamente spettacolare; dell’altro c’è il cinema prodotto, e’ cioe’ delle storie per immagini e suoni che uno puo’ consumare su molte differenti piattaforme, oltre che in sala, e in cui quel che emerge e’ il fascino di un racconto, e non l’immersione in uno spettacolo che ti porta via per un po’ dalla vita quotidiana. Dove sta la potenza del cinema? In passato la sua potenza è stata nell’incontro tra queste due cose, l’evento e il prodotto, la spettacolarità e la accessibilita’. Il cinema creava una sospensione dalla vita ordinaria grazie ad un racconto e a un luogo in cui fruirlo—grazie ad un film e ad una sala. Per questo poteva essere associato al sogno, ma anche al gioco—che richiedono entrambi una qualche forma narrativa ma anche una situazione speciale in cui questa narrativa fluisce. La forza del cinema era questo doppio scenario che esso costriva. Adesso invece c’è da una parte l’evento e comunicazione dall’altra. Vado al cinema per godermi il fatto di andare al cinema, e vedo un film per godermi il film. Naturalmente esistono ancora un sacco di passerelle. Nella “Galassia Lumiere” provo a dire che l’esperienza senza la sala non è persa, che continuiamo a costruire densità di esperienza anche fuori dalla sala. Io penso che i due aspetti, anche se si stanno separando, beneficiano ancora l’uno dell’altro.

Tanto per dire, mi godo piu’ che mai rassegne e retrospettive che mi auto-organizzo sul divano di casa, al buio, con mia mogli che mi obbliga a stare concentrato e zitto. Sul divano comodo, nella stanza buia e silenziosa, si sta quasi meglio che in alcune sale non troppo friendly dei cinema multiplex di adesso. C’è una dimensione in cui il prodotto gode di poter essere visto in sala e fuori. Naturalmente il contesto domestico favorisce altre forme di consumo. A casa il medium per eccellenza e’ internet (o per le case un po’ attrezzate le telecamere di sorveglianza e i comandi delle utilities, dal riscaldamento al frigo, che posso attivare con a distanza con il mio cellulare). Questo fa si’ che per esempio i ritmi di visione del cinema, che richiede una attenzione prolungata, sembrano obsoleti e intenibili. Lo sguardo oggi è fuggevole, disattento, mobile, si trattiene poco. E’ appunto lo sguardo di chi twitta e naviga in rete. Con i miei studenti ogni tanto mi interrompo e dico: “adesso potete controllare la vostra posta, snapchat, facebook, e quant’altro, altrimenti so che diventate ansiosi”. Studiano cinema, ma non sono animali cinematografici come ero e in qualche modo sono ancora. Questo diverso senso del tempo mi colpisce molto—e anche mi turba un po’. Penso ad esempio che per la mia generazione la politica era la passione di una vita; adesso le battaglie durano pochi mesi, poi si passa a qualcosa d’altro. Uno sguardo fuggevole, che non si trattiene sugli oggetti, porta ad un atteggiamento nei confronti del mondo differente da quello impegnato e passionale che il cinema ci ha insegnato. E tuttavia penso che il cinema ci testimoni ancora della presenza di quello sguardo forte, che sa possedere le cose, giocare con le cose immergendosi dentro.

Tanti studi internazionali citano ormai la capacità di trovare e interpretare correttamente le informazioni fra le competenze indispensabili e minime di cittadinanza. In questo contesto, che ruolo possono assumere, secondo lei, il cinema e le immagini in movimento in ambito educativo? Quali sono le potenzialità di un processo educativo che tenga dentro il suo orizzonte i linguaggi e gli strumenti che i ragazzi guardano e utilizzano quotidianamente?

Io appartengo a una generazione in cui si educava al linguaggio cinematografico. Avevi l’impressione che imparando che cos’è il primo piano, cos’è un campo lungo, imparavi a capire meglio il contenuto di un film. Se sapevi la grammatica del film sapevi meglio cosa il film ti diceva. Indubbiamente metà della cosa è ancora valida oggi: penso a come una analisi “testuale” possa aiutare a capire come un film o una trasmissione tv “truccano” la realtà. Quello che mi sembra importante è però capire non solo come funziona il film da un punto di vista del linguaggio, ma anche da quello esperienziale. Capire gli strumenti di diverso tipo che abbiamo a disposizione e come li usiamo per costruire la nostra esperienza è un punto non solo pedagogico, ma politico. Vivo in America e qui oggi c’è una battaglia in cui si discute di come la verità si fonda sui fatti. Ma come afferrare i fatti in un mondo mediatizzato come il nostro? Come riuscire ad esperire le cose attraverso delle immagini e delle parole? E come riuscire nonostante la mediazione a fare un’esperienza vera? Non e’ solo una questione di grammatica: e’ anche una questione di contesto, di spazio sociale in cui io mi espongo alla realta’. Ed e’ una questione di stile di conoscenza che ogni medium dà. Trovo che non sia sbagliato tornare a pensare, in maniera magari meno schematica del passato, al cinema come strumento epistemologico. Io sto lavorando ancora sui ragionamenti che il cinema ha fatto sorgere nei primi 30 anni della sua vita. Allora si diceva “il cinema che parla per immagini rinuncia alla logica del discorso verbale”; o anche “il cinema ipnotizza lo spetattore, lo rende uno zombie”; ma anche “il cinema ci restituisce la verita’ delel cose che le parole ci hanno occluso”. Erano affermazioni appassionate ma spesso un po programmatiche, semplificatrici. Bisogna stare un po’ attenti: e magari anch’io, in questa intervista, ho semplificato un po’ troppo. Comunque, capire come diversi mezzi sviluppano diversi stili di conoscenza mi sembra oggi molto importante—evitando i facili modi di pensare, ma cercando di essere onesti con se stessi. In questo senso mi capita di proporre spesso un confronto tra cinema e i social network, in particolare rispetto alle questioni della fondatezza, della verità. Ma anche rispetto alla responsabilità di dire certe cose. Non per stabilire che e’ buono e chi e’ cattivo, ma giusto per capire che tipo di esperienza i due fronti mi fanno fare. Del resto, come la recente campagna presidenziale americana ci ha insegnato, oggi la battaglia politica e’ anche una battaglia mediatica—chi usa un medium e chi un altro, e con cio’ chi suppone che la verita’ sia una cosa, e chi un’altra.

Il progetto “Schermi in Classe” stimola la scelta, l’utilizzo e la condivisione di contenuti audiovisivi e multimediali da parte degli studenti, favorendo un approccio critico ai linguaggi delle mafie e sulle mafie, in una cornice di educazione alla cittadinanza attiva. Qual è oggi il rapporto tra le immagini in movimento e la costruzione di immaginari collettivi?

E’ ancora molto forte questo rapporto, indubbiamente è molto forte. Il cinema è uno strumento pedagogico fondamentale, che ha modellato storicamente la vita moderna, raccoglierndone e rilanciandone i temi e i ritmi. Sull’altro lato, tutto ciò che serve a educare alla cittadinanza e alla legalità è importante. Ma attenzione: il film è un’operazione di mobilitazione, più che di sedimentazione. Serve per far esplodere la coscienza. Oggi è meno forte nel far penetrare dentro il sentire e il vivere di una popolazione degli orientamenti morali. Perché è un linguaggio eccezionale, in senso proprio.

Una parola molto in voga è “post-verità”, come aspetto della post-modernità che porta allo sfaldamento del confine, e della sua percezione, fra realtà e finzione. Il tema ci sembra scottante, soprattutto con riferimento alle generazioni più giovani, ma non solo: secondo lei in che direzione andiamo? Come si ricostruisce la capacità di distinguere le opinioni dai fatti? E nel campo delle opinioni, come si può rifondare la capacità dialettica, di formazione del pensiero, anche dentro ai nuovi media?

E’ un tema esplosivo, certamente. Posso anticipare che il corso universitario che inizierò a ottobre è proprio su questo tema: i media e la questione della verita’. Partirò da Platone e dalla nascita della scrittura. Per Platone, la scrittura allontana l’uomo dalla immediatezza della voce che proviene dal cuore e – allontanandolo – lo rende meno responsabile. Già Platone percepisce che i media pongono un problema radicale, mediando la realtà. D’altra parte l’uomo è l’unico animale che funziona anche offline: può immaginare delle cose e non solo viverle. Ecco, i media sono questo straordinario strumento che ci consente di operare sul reale anche quando il reale non e’ presente, ma e’ solo figurato—quando e’ dato in maniera mediata. Ovvio, questo passo indietro rispetto alla bruta presenza delle cose e’ cio’ che rende problematica la questione della verità. Non possiamo piu’ pretendere di avere un riflesso immediato di ciò che succede. Tuttavia esistono dei fatti … C’è un lungo dibattito che adesso è esploso, con quel che sta succedendo nel mondo: L’uso dei fake news, dei blog, … Come ha detto qualcuno di questi responsabili editoriali di siti che diffondono notizie false: “Io non ho fatto qualcosa di disonesto, ho dato alle persone ciò che si aspettavano dai fatti”. E dici poco! Questo non è disonesto, è terribile! Ma tutto questo non è recente. Tutto il Novecento è attraversato dalla questione di un progressivo allontanamento dalla realta’ e dalla progressiva importanza dell’esperienza mediata. L’unico modo di uscire dalla questione non è abolire la comunicazione, ma conservare l’idea che la realtà, nonostante tutto, esiste. Ed è quella cosa dolorosa che si fa sentire quando ci colpisce, quando ci ferisce. La realtà si impone quando diventa ferita—quando lascia il segno. C’è una tendenza a dimenticare la presenza all’orizzonte della realtà, salvo quando interviene e ci lascia tramortiti. Ricordarsene fa bene—e’ appunto cio’ che ci rende onesti, prima di tutto con noi stessi