Tra la confisca di un bene alla criminalità e la sua assegnazione a un’organizzazione che possa gestirlo per il bene della comunità passano in media cinque anni. Tempi lunghi che chiaramente non favoriscono il riscatto economico e sociale dei territori. «Dobbiamo affinare i nostri strumenti e accrescere il dialogo tra istituzioni e il mondo economico e sociale» detto da Gateano Mancini, vicepresidente di Confcooperative che si occupa dei beni confiscati, durante un incontro a Roma al Palazzo della Cooperazione per fare il punto sul contributo che le cooperative danno al rilancio dei beni strappati alle realtà criminali.Le coop impegnate nella gestione dei beni confiscati sono 200, occupano 3mila persone e fatturano 100 milioni di euro all’anno. Ricchezza che sta sul territorio (spesso sono coop impegnate sull’inclusione lavorativa dei più fragili) Sono in genere imprese di piccole dimensioni, ma ben strutturate dal punto di vista finanziario. Nel 60% dei casi lavorano al Sud. Secondo i dati raccolti dal centro studi di Confcooperative, i beni confiscati affidati alle coop valgono 40 milioni di euro. Si tratta per quasi la metà dei casi (48%) di immobili: ville, appartamenti, anche interi palazzi. Per il 28% sono terreni agricoli, in altri casi strutture commerciali, industriali o turistiche. Le coop li usano in prevalenza (34% dei casi) come luoghi di accoglienza e integrazione. Nel 25% dei casi l’uso è invece agricolo, nel 12% gli spazi sono dedicati alla formazione e nel 10% dei casi a commercio, artigianato o ristorazione.
All’incontro quattro cooperative hanno portato la loro esperienza: Verbumcaudo, che nel Palermitano ha ridato vita a terreni agricoli sequestrati alla mafia; Goel, che ha base a Roccella Ionica ed è attivo nel campo sociale e sanitario; Al di là dei sogni, che a Sessa Aurunca si occupa di inserimento lavorativo di persone fragili lavorando terreni sequestrati alla camorra; Semi di Vita.

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