La mafia da lavoro?
Durante il suo ultimo concerto, tenutosi a Roccella Jonica (RC) nell’agosto del 1998, Fabrizio De Andrè stupì il pubblico affermando che “se nelle regioni meridionali non ci fosse la criminalità organizzata, la disoccupazione sarebbe molto più alta, almeno il dieci per cento in più”. Come prevedibile, tali dichiarazioni innescarono una violenta polemica, che sfociò anche in un’interrogazione parlamentare. Con l’onestà intellettuale che gli era propria, il cantautore genovese sollevava il velo di ipocrisia che circonda il rapporto tra mafia ed economia nelle regioni meridionali: al riparo di ricorrenti richiami alla legalità, in molti si chiedono infatti se non sia vero che, dopotutto, la “mafia dà lavoro”.
In un certo senso, è indubbio che sia così. Al pari delle attività lecite, anche quelle criminali impiegano forza lavoro e distribuiscono benefici economici ad una varietà di soggetti, dal piccolo spacciatore fino al capobastone, dall’impresa infiltrata in un appalto truccato alla finanziaria che ricicla i proventi delle attività illecite. Tuttavia, per capire se De Andrè (e altri assieme a lui) abbiano ragione nel sostenere che la mafia crea lavoro, bisogna porsi un’altra domanda: tali benefici superano i costi derivanti, direttamente o indirettamente, dalla presenza delle organizzazioni criminali? Paradossalmente, gli allarmi diffusi sempre più frequentemente in merito al peso delle organizzazioni criminali nell’economia del nostro paese pongono spesso l’accento sui profitti di queste ultime (“la mafia è la prima azienda italiana”) anziché sui costi che ne derivano. Questi ultimi includono, per esempio, la distorsione della domanda pubblica a favore di imprese connesse con le organizzazioni criminali (a svantaggio di altre potenzialmente più efficienti) e la conseguente fuga della imprese “sane” verso le aree libere dalla presenza mafiosa.

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