Era il pomeriggio del 23 novembre 1993 quando un bambino di 12 anni di nome Giuseppe Di Matteo fu rapito da un gruppo di mafiosi che agivano su ordine dei due boss Giovanni Brusca e il recente latitante Matteo Messina Denaro. I sequestratori si travestirono da poliziotti della DIA ingannando facilmente il ragazzo, felice perchè credeva di riuscire finalmente a rivedere il padre, Santino Di Matteo, il quale in quel periodo era sotto protezione lontano dalla Sicilia. Il ragazzo fu legato e lasciato nel cassone di un furgoncino Fiat Fiorino, prima di essere consegnato ai suoi carcerieri. La famiglia cercò presso tutti gli ospedali cittadini notizie del figlio, ma poco dopo tempo arrivò un messaggio su un bigliettino alla famiglia con su scritto “Tappaci la bocca” e due foto del ragazzo che teneva in mano un quotidiano. A quel punto fu chiaro che il rapimento era finalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni. Nel dicembre dello stesso anno la mamma Francesca andò a denunciare la scomparsa del figlio, ma in serata su recapitato un nuovo messaggio a casa del suocero “Il bambino lo abbiamo noi e tuo figlio non deve fare tragedie”. Per tutto il 1994 il ragazzo fu spostato in varie “prigioni” e nell’estate del 1995 fu rinchiuso in un vano sotto il pavimento in un casolare-bunker, dove rimase per lungo tempo. Il padre non si piegò al ricatto e decise di proseguire la sua collaborazione con la giustizia. Brusca fu condannato all’ergastolo e decise di vendicarsi sul ragazzo: egli ordinò la sua uccisione e successivamente il suo corpo fu sciolto nell’acido.
Ebbene questa è la storia di un bambino figlio di un ex-mafioso che ha deciso di collaborare con la giustizia per garantirgli un futuro migliore, ma così non è stato. Secondo alcune “regole” della mafia non c’è alcun bisogno di toccare bambini o donne per nessuna ragione, allora perchè ci sono storie simili a questa che dicono il contrario?