Due ragazze, i genitori innocenti massacrati da mafia e camorra: entrambe oggi sono laureate in legge, sono attiviste di Libera e sono impegnate in maniera diversa per aiutare chi si trova in situazioni difficili.
il punto di vista di alessandra clemente Ho 24 anni, sono laureata in giurisprudenza e sto facendo pratica legale presso l’associazione antiracket italiana. Quello che posso fare come figlia di una vittima è prestarvi i miei occhi per vedere lo schifo e la vergogna che sono le mafie in questo Paese, e perché ognuno di noi non può sentirsi tagliato fuori da questo problema. Avevo dieci anni quando è successo, e per me ogni giornata del 21 marzo celebrata in diverse città è stata motivo di crescita. Ho sentito mia madre viva. Aveva 39 anni l’11 giugno 1997. Io ne avevo dieci, ero sul balcone e la guardavo mentre rientrava dall’asilo tenendo per mano mio fratello Francesco, di 5 anni.
La nostra casa era al Vomero, un quartiere residenziale di Napoli, dove la camorra non ti consegna a quel degrado quotidiano di altre zone cittadine. Ci sono gli ospedali, i centri commerciali.
Al Vomero due clan avversari, i Cimino-Alfano e il clan Caiazzo, gestivano affari economici: non droga, non sparavano. Quel giorno si cercavano per ammazzarsi. E nella sparatoria mia madre rimase colpita senza sapere nemmeno perché. Io dal balcone ho visto tutto, ma preferisco ricordare di lei il suo sorriso, non la sua morte.
Questo sono le mafie: morire senza motivo.

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