Giuseppe Di Matteo, nato a Palermo il 19 gennaio 1981, fu rapito il pomeriggio del 23 novembre 1993, all’età di 12 anni, in un maneggio di Piana degli Albanesi, da un gruppo di mafiosi che agivano su ordine di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato. Il rapimento venne architettato il 14 novembre del 1993, quando Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Giovanni Brusca si incontrarono in una fabbrica di calce a Misilmeri. Bagarella, Graviano e Messina Denaro rimproverano Giovanni Brusca di non aver preso provvedimenti riguardo alla quantità di uomini appartenenti al commando della strage di Capaci che stava collaborando con la giustizia: Giuseppe Graviano propone di uccidere il piccolo Di Matteo. Giovanni Brusca propone di sequestrarlo al posto di ucciderlo subito. Graviano, Bagarella e Messina Denaro danno il loro assenso, così Graviano si offre di organizzare il rapimento. Secondo le deposizioni di Gaspare Spatuzza, uomo di fiducia di Graviano che prese parte al rapimento, i sequestratori si travestono da poliziotti della DIA ingannando facilmente il ragazzo, che credeva di poter rivedere il padre, in quel periodo sotto protezione lontano dalla Sicilia. Spatuzza raccontò anche che: “Agli occhi del ragazzo siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. Lui era felice, diceva ‘Papà mio, amore mio’ “. Il ragazzo fu legato e lasciato nel cassone di un furgoncino Fiat Fiorino, chiuso in un magazzino a Lascari, prima di essere consegnato ai suoi carcerieri.
La famiglia cercò notizie del figlio presso gli ospedali della zona, ma, quando, il 1º dicembre 1993, giunse alla famiglia un biglietto con il messaggio “Tappa la bocca” e con due foto del ragazzo con in mano un quotidiano del 29 novembre 1993, fu chiaro che il rapimento era finalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci e sull’uccisione dell’esattore Ignazio Salvo.
La madre di Giuseppe, Francesca Castellese, denunciò la scomparsa del figlio il 14 dicembre 1993. In serata fu recapitato un nuovo messaggio a casa del nonno, omonimo, Giuseppe Di Matteo, con scritto “Il bambino ce l’abbiamo noi, non andare ai carabinieri se tieni alla pelle di tuo nipote”; successivamente, al nonno fu fatta vedere una foto del ragazzo e gli venne comunicato che “Devi andare da tuo figlio e farci sapere che, se vuole salvare il bambino, deve ritirare le accuse fatte a quei personaggi, deve finire di fare tragedie”.
Per tutto il 1994 il ragazzo fu spostato in varie prigioni nel palermitano, nel trapanese e nell’agrigentino e nell’estate 1995 fu infine rinchiuso in un vano sotto il pavimento di un casolare-bunker costruito nelle campagne di San Giuseppe Jato al quale si accedeva azionando un meccanismo elettromeccanico, dove rimase per 180 giorni fino alla sua uccisione.
Il padre, Santino Di Matteo, dopo un tentativo andato a vuoto di cercarlo ad ottobre con Gioacchino La Barbera e Balduccio Di Maggio, pure loro collaboratori, decise di proseguire la collaborazione con la giustizia. Quando Brusca, latitante, venne condannato all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo, su richiesta di Messina Denaro, Graviano e Bagarella, ordinò a Enzo Brusca, Vincenzo Chiodo e Giuseppe Monticciolo di uccidere il ragazzo, che venne quindi strangolato e poi disciolto nell’acido l’ 11 gennaio 1996, dopo 25 mesi di prigionia.