Il linguaggio mafioso è composto dalla gestualità, ritualistica, simboli e di tanti silenzi, anche attraverso i silenzi i mafiosi parlano. Un codice verbale e non verbale tramandato da uomo d’onore a uomo d’onore durante il “battesimo”, ovvero il rito di affiliazione alla famiglia. Anche la comunicazione mafiosa ha subito dei cambiamenti per stare al passo con i tempi: dalle lettere di scrocco di fine 800, ai vecchi pizzini, ai messaggi cifrati sui social, alle ospitate ed interviste in TV.
Un linguaggio anche scritto c’è traccia sequestrando i libri contabili del boss Lo Piccolo che conservava il decalogo del perfetto mafioso, quello elencato ai nuovo uomini d’onore. Un caso più unico che raro per cosa nostra che evitava qualsiasi forma scritta per preservare la segretezza dell’associazione criminale. Per una mappa indicante le varie famiglie palermitane il boss Michele Cavataio fu ucciso nella strage di Viale Lazio nel dicembre 1969.
Tutto per la mafia è messaggio anche nel modo in cui fanno rinvenire i cadaveri: l’incaprettamento indica un tradimento, un cadavere con i genitali in bocca significa aver parlato troppo e non avendo così rispettato le regole, se ha del denaro in tasca o in mezzo ai genitali significa che aveva rubato. Il linguaggio in codice consolida ancor di più il gruppo criminale, un gergo ermetico che attribuisce ad una parola diverse espressioni. Ad esempio, la parola uccidere è utilizzata in differenti varianti: astutari (spegnere), attumulari (seppellire), ‘ncasciari (chiudere nella cassa), aggiuccari (piegare), asciucari (asciugare). Un gergo interregionale che prende il nome di ‘Baccagghiu’, necessario per il dialogo tra le tre mafie principali. Cosa Nostra utilizza anche dei proverbi come “A megghiu parola è chidda chi un si dice”, ossia la miglior parola è quella che non si dice e “ghigati juncu chi passa a china”, cioè piegati giunco che passa la piena. Indicano l’indispensabilita’ del silenzio e la capacità di cosa nostra di saper attendere e superare ogni ostacolo.