LA TERRA DELL’ABBASTANZA

di Damiano e Fabio D’Innocenzo

Italia 2018, 96 min.

Una sera, in una periferia di Roma, i due amici d’infanzia Mirko e Manolo sono a bordo di una piccola auto quando investono un uomo e scappano.
Gli iniziali sensi di colpa vengono ben presto taciuti: l’evento tragico si trasforma in un’opportunità che modifica radicalmente le loro vite. L’uomo che hanno ucciso è un pentito di un clan criminale di zona e facendolo fuori i due ragazzi si sono guadagnati un ruolo ed entrano a far parte di un giro d’affari che gli porta fra le mani ingenti somme di denaro.
Come reagiranno due adolescenti a questo vortice di soldi e apparente rispetto che gli stravolge la quotidianità?

Età consigliata: dai 13 anni

Note di regia
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio”.

Questo diceva Italo Calvino. 
Con questo film volevamo raccontare com’è maledettamente facile assuefarsi al male. I due ragazzi protagonisti uccidono involontariamente un uomo e scelgono la via più facile, quella del silenzio, ma i fantasmi di quest’evento non gli lasciano tregua. Così cominciano a corazzarsi dai sensi di colpa. Credono sia più facile accumulare ulteriore carico di disumanizzazione invece che ripulirsi da quanto è accaduto. Quando si apre lo spiraglio dell’attività criminale vedono miracolosamente concretizzarsi la pista alternativa della quale credono di avere bisogno: abituarsi al male. Al punto da non sentire più niente, coscienza compresa. 
In un mondo in cui la sofferenza è sinonimo di debolezza, i due ragazzi protagonisti si spingeranno oltre il limite della sopportazione per vedere fin dove si può fingere di non sentire nulla.

Purtroppo, lo scopriranno sulle loro spalle: si può fingere fino alla fine. Non esiste uno stop, se non il definitivo. Perché il sangue non fa più impressione e la paura cessa di essere un meccanismo di difesa, la violenza diventa l’unico linguaggio comprensibile. Un linguaggio che fa terra bruciata dovunque lo si parli. Non importa quale sia il luogo di provenienza delle vittime. 
Cruciali, per l’impianto narrativo, sono le figure genitoriali dei due ragazzi protagonisti, che seppur collocate agli opposti sono entrambe vittime dell’inesorabile spirale tragica che non accenna a fermarsi: quella di un padre più immaturo dei protagonisti, che spinge il figlio su un treno che lui ha perso e che si ostina a inseguire e quella di una madre che il treno invece cerca invano di fermarlo.