Immaginario & realtà: la rappresentazione culturale del disagio nell’Italia degli ultimi anni
Christian Caliandro
La rappresentazione del disagio, del crimine e della legalità nell’Italia degli ultimi anni può essere illustrata efficacemente da un confronto tra La Piovra (prime due stagioni, 1984-85) e Gomorra (2, 2016).
Negli anni Ottanta, l’Italia e gli italiani si identificano nella figura del commissario Corrado Cattani – nel suo tormento psichico, nella sua traiettoria anche deviante. Cattani è l’Italia, è lo Stato: relazione complessa si articola nell’immaginario. È reso di fatto impossibile a quell’epoca, dalle strategie narrative di una produzione pubblica, identificarsi con i mafiosi, con i criminali. Trent’anni dopo, invece, lo Stato scompare, evapora, non esiste più nella fiction: Gomorra (prima e seconda stagione) presenta singolarmente le vicende familiari e generazionali dei clan camorristici di Scampia e Secondigliano in un contesto e in uno scenario post-apocalittici. Capannoni deserti, residence diroccati, porti e container, magazzini fatiscenti, fabbriche abbandonate, terrazze desolate – o la Roma vuota e come disabitata dell’EUR e dei nuovi grattacieli – sono gli ambienti in cui si svolge gran parte del dramma, delle azioni, dei dialoghi tra i protagonisti: sono luoghi che fondono esterno e interno, spazio pubblico e privato, generando una dimensione inedita che è sia fisica che morale – certamente contemporanea. E insieme problematica: l’identificazione è completamente schiacciata e compressa sui protagonisti criminali; gli antagonisti sono tutti in quel recinto e non esiste più un fuori, un esterno, una controparte.
Il realismo italiano nella fiction televisiva di questi anni, dunque, presenta molti aspetti critici. È come se autori, sceneggiatori e registi rimanessero intrappolati nella “cartolina” e nella “cartolinizzazione”: tra La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino e Gomorra 2, la differenza è infatti solo di temperatura e di colore. Lo stereotipo nella rappresentazione culturale dell’Italia (Roma, Napoli) vira semplicemente al nero, con un gusto molto definito (e un’estetica specifica, conseguente) degli ambienti degradati, diroccati, scrostati e scarnificati. Una cartolina ‘a tinte fosche’, per così dire – che corrisponde in larga parte alle esigenze di percezione del mondo-mercato esterno, più che ad istanze di rinnovamento creativo interno, e che evidenza un’attrazione per il vuoto: “Questa insistenza verso i luoghi privi di storia, l’anonimato, l’intercambiabilità, l’indifferenza morale, il grigiore del cranio rasato, il vuoto, la diffidenza verso la cultura, l’afasia, insomma la sua fredda passione per il nulla” (Edoardo Albinati, La scuola cattolica, Rizzoli 2016).
In particolare, l’uso che La grande bellezza fa del patrimonio culturale (di Roma, e dunque dell’Italia) è paradigmatico. Jep Gambardella è una figurina che con giacche sgargianti si muove su uno sfondo immobile, inerte: Roma è stranamente spopolata; non ci sono persone per le strade della Capitale – tranne suore prelevate di peso dall’immaginario felliniano – attraversate dallo scrittore-non scrittore. Il re delle feste assomiglia al Vincent Price de L’ultimo uomo sulla terra (Ubaldo Ragona 1964), che si aggira per le strade dell’EUR abitate unicamente da una nuova razza di vampiri. Qui vampiri non ce ne sono, ma fantasmi sì. E spettrale è questa Città su cui scivola il protagonista, senza interagire con essa – con il Colosseo, con il Lungotevere, con i monumenti. La percezione che Jep e gli spettatori hanno di questo tessuto urbano è eminentemente turistica: Roma è una scenografia, un set, una location – una cartolina con cui non è possibile alcuna vera reciprocità. Lo stesso lemma “la grande bellezza” (che ha fatto già in tempo a diventare proverbiale, sui giornali in tv e nelle strade, un modo di dire) suggerisce prepotentemente i concetti di passività, di mistero, di immobilismo – di una sostanziale incomprensione.
***
La questione del realismo influenza negli ultimi anche altri territori culturali, come la letteratura e le arti visive. Qual è infatti la funzione possibile, ed effettiva, della produzione artistica in rapporto al contesto di riferimento, e alla sua trasformazione? In che modo arte e cultura, oggi, sanano le ferite e contribuiscono all’elaborazione dei traumi collettivi?
Due gli esempi recenti trattati: le Sette Stagioni dello Spirito (2013-’16) di Gian Maria Tosatti e Taranto Opera Viva (2015) di Alessandro Bulgini.
Le installazioni site-specific delle Sette Stagioni costituiscono insieme una megaopera che coinvolge l’intero tessuto urbano di Napoli (un “corpo a corpo con la città”). Essa si condensa sempre in luoghi ex, luoghi affascinanti perché marciti, che hanno avuto una funzione e un’esistenza e adesso non ce l’hanno più: la caratteristica fondamentale di questi lavori è dunque la riattivazione di spazi abbandonati. Ma qui l’abbandono non scompare, non evapora: piuttosto, si cristallizza. Non si tratta di arte didascalicamente sociale, che “fa partire” progetti di vago coinvolgimento comunitario; questa operazione – chirurgica – consiste piuttosto in una dolorosa, spiacevole attivazione del presente: visualizzazione di questo tempo profondo, e sua analisi. Autopsia.
Il tentativo riuscito di Tosatti è quello di sospendere il tempo spettrale che stiamo vivendo: costringe lo spettatore a fronteggiare le sue paure, eliminando ogni rumore di fondo, ogni simulazione, ogni spettacolo consolatorio. Un’opera riuscita deve perciò coinvolgere integralmente l’essere umano annullando di fatto la dimensione dello “spettatore”: deve farsi percepire cioè come pericolosa.
E l’aspetto più interessante di queste opere è che esse non restituiscono propriamente alla vita gli spazi che occupano, ma restituiscono in modo più sottile la loro vita oltre la morte (la “ex-vita”, appunto), la loro condizione fantasmatica: rendono cioè percepibili le presenze, gli strati della nostra memoria conflittuale e rimossa e delle nostre vite collettive precedenti. Ciò che lo spettatore prova, irretito da questa esperienza, da questo apparato, da questo dispositivo, è infatti: serena, misurata, pacata tristezza. Vengono in mente, così, sia Anna Maria Ortese, sia Dante, Michelangelo, Pasolini, De Chirico, Malaparte: riferimenti costanti di Tosatti, e al tempo stesso indizi precisi della sua idea di italianità artistica, una costellazione a partire dalla quale ridisegnare la rotta.
Taranto Opera Viva si è invece sostanziata di una serie di interventi, azioni e attività artistiche multidisciplinari che hanno coinvolto l’intera comunità di Taranto Vecchia: luoghi, identità personali e collettive, aree pubbliche e private, realtà culturali ed economiche (vicoli e postierle; le case delle famiglie; le paranze e i pescatori; le botteghe artigiane e commerciali; gli spazi culturali e associativi) hanno collaborato così a un grande, inclusivo workshop quotidiano.
Dieci magliette e una felpa rosse con il logo Taranto Opera Viva; un pantalone da tuta, due paia di pantaloni e scarpe anch’esse rosse hanno costituito l’abbigliamento indossato da Bulgini durante la sua permanenza in città, utile ad essere il più possibile soggetto d’attenzione nei percorsi quotidiani. L’intenzione dell’artista è stata dunque quella di relazionarsi fortemente con i residenti e, tramite lo scambio culturale, stabilire relazioni vivide con luoghi e persone, lasciando tracce oggettuali, performative, pittoriche, installative. Obiettivo dichiarato: valorizzare l’identità del borgo e dei suoi abitanti, trasformando con il contributo di tutti, e proprio per il contributo di tutti, Taranto in un luogo di sperimentazione artistica, di festa, di accoglienza e socialità.
Tutto questo nella convinzione che le città sono prima di tutto esistenze, relazioni umane – non infrastrutture materiali: se la nostra attenzione si focalizza sull’ecosistema (costituito da paesaggio architettonico, paesaggio naturale e paesaggio umano), sulla temperatura e sulla qualità di questo ecosistema, ecco che le sue funzioni – e le disfunzioni – ci saltano all’occhio più chiaramente. Chiudere l’arte e la cultura in luoghi deputati, istituzionali, segregarla all’interno di recinti non è mai stata un’opzione salutare, democratica, intelligente: meno che mai in questo momento storico. Proprio l’assenza (la vacanza) momentanea di questi luoghi istituzionali è un’occasione preziosa da cogliere e agganciare: essa è in grado infatti di favorire l’adozione di pratiche (e politiche) radicalmente innovative.