“Finalmente si sceglie sì l’immagine ma per il senso che può assumere di nuovo, pienamente, attraverso un lavoro didattico
e pedagogico ben istruito che sceglie come contesto il paesaggio
entro il quale la mafia vive, insieme a tutto il resto”.
Marco Rossi Doria, maestro e politico, esperto di processi di apprendimento e politiche inclusive, introduce la pubblicazione di Schermi in Classe. Media literacy ed educazione alla cittadinanza.
Il testo, curato da Giulia Tosoni e Roberta De Cesare per Ed-Work, edito da Gruppo Abele, non è in vendità. Per riceverlo, scrivi a sic@cinemovel.tv.
Un modo giusto, di Marco Rossi Doria
In troppe parti del nostro Paese – io vivo in una di queste – le mafie condizionano, a volte in modo violento e altre in modo apparentemente tranquillo, quasi naturale, l’economia, la politica e soprattutto la società e, in essa, lo svolgersi concreto, quotidiano delle relazioni umane e anche il come si cresce e il come, da bambini e ragazzi, si impara come è fatto il mondo. “La mafia è un fenomeno umano – come diceva Giovanni Falcone – e dunque può essere battuta.” Ma per batterla vanno coinvolti i ragazzi. E a questi vanno dati gli strumenti per capire il carattere umano del fenomeno.
Perciò ai ragazzi la mafia va mostrata, appunto, per come è, nella sua forma terribile e nella forma con la quale essa vive insieme alle cose normali, condizionandole, essendone condizionata. L’illegalità e la legalità convivono in cento e cento modi e il potere non mafioso e quello mafioso si frequentano, si svolgono nella vita d’ogni giorno, a volte vicini, a volte intrecciati, a volte distinti, a volte, per fortuna, nemici tra loro. Battere la mafia significa scegliere la legge e la giustizia contro il crimine e l’ingiustizia. Ma non è così facile capire come e in che modo. Per questo, contrastarla è opera della quotidianità, fatica ordinaria, analisi accorta di come interessi e poteri illegali si muovono giorno dopo giorno. Ed è anche la capacità di scegliere, nella vita, le cose buone e saperlo fare. Contrastare la mafia è, perciò, un lavoro fatto di storie, racconti, domande – di chi ha vissuto le situazioni, di chi ha voluto, saputo scegliere.
Questo piccolo libro dice cose importanti su “un modo giusto”, per i ragazzi, di imparare queste complicate cose sulle mafie. E anche su come si impara nel mezzo della complessità, in generale. Perché quasi nulla è subito facilmente definibile, decifrabile senza lavoro per capire, distinguere, analizzare, secondo più prospettive e diverse categorie per potere, poi, scegliere bene.
La prima cosa che il metodo di lavoro qui mostrato ci dice riguarda la potenza pedagogica dell’immagine, quando usata con ritualità, cura, rispetto. Il cinema, la scena hanno una potenza che dura e durerà. Ho avuto la fortuna di impararlo molto presto. Mio nonno scriveva per il teatro e per Hollywood. Un giorno mi disse “Lo sai – se c’è una scena dove si muovono le storie – o è teatro o è cinema, poco importa – e tu dici, guarda, sta arrivando la scena, prepariamoci, beh, sai una cosa, la scena ci prende e non ci lascia e te la trovi dentro per tutta la vita”. Me lo disse che ero ragazzino.
Poi, l’ho riscoperto da maestro. Quando, con i bambini e i ragazzi, si dà spazio e valore alle immagini che raccontano (attenzione: non basta solo metterle davanti, bisogna introdurle e accompagnarle, con vero riguardo), esse prendono l’attenzione nel senso più profondo e possono favorire l’apprendimento in modi ogni volta sorprendenti. Il carattere multi-mediale della proposta di immagini – che contiene un turbinio di voci, gesti, spazi, racconti – ricercati dai ragazzi insieme ai docenti, entro un vero laboratorium – chiama a produrre, fruire, trattenere, rigenerare, il tutto insieme. E questo rende potenzialmente più ricca questa possibilità di attenzione, purché vi sia un prendere i materiali multi-mediali per mano, insieme ai ragazzi. È un lavoro ulteriore fatto di passaggi curati, processi e piccoli e grandi prodotti, ritrovati o costruiti in proprio e di parole adulte pacate e rispettose, mai subito conclusive e, dunque, di tempo dedicato.
Il punto di partenza scelto da questa esperienza pedagogica contro le mafie e per la legalità è una storia e le immagini di una storia. Le narrazioni in immagini sono ancora potenti. Come dice qui nell’intervista il professor Casetti: “Da un punto di vista generale c’è una permanenza del cinema”. Ma questa permanenza va introdotta con nuova cura. Perché oggi i ragazzini succhiano immagini da schermi di ogni misura, che li accompagnano in modo insistente, a ogni battito del tempo, come ritmo di ciglia che apre la vista prima dello sguardo sul mondo. È un flusso incessante, troppe volte privo di gerarchia e privo di rito e di voce che accompagni. E – in tema di mafie – le immagini sul come è la mafia rischiano, ogni volta, di farsi ripetute, scontate, facili, di “gomorrizzarsi” in stereotipi del gesto e del linguaggio; e di spiegare poco, di far capire poco.
Invece è un nuovo, più complesso rispetto per le immagini di mafia che qui viene messo davanti ai ragazzi. Ogni racconto, infatti, viene accompagnato da una coppia di parole. Che istigano a pensare. Così, la seconda cosa che dice questo libro riguarda la procedura di accompagnamento, a monte e a valle, dell’uso delle immagini. L’immagine non è lasciata sola. È parte di una trama pedagogica, ben guidata. Vi sono sedici coppie di parole che guidano una mappa concettuale che viene avanti attraverso una costruzione partecipativa di senso. Queste parole, usate secondo un setting didattico convenuto, introducono e poi seguono, passo passo, il tema. E grazie a queste parole-chiave si costruisce una riflessione corale, cooperativa.
Si ri-scopre il dialogo, il dibattere – il cercare di capire. Domande e risposte
si inseguono, ognuno si esprime. Si arriva a conclusioni gradualmente e navigando nella complessità perché si esplorano i contesti mafiosi, le zone grigie, le domande sulla difficoltà di decidere da che parte stare e di come agire per il meglio.
Fare questo scegliendo il cinema e poi altre fonti visive e vocali è una sfida di grande portata. Infatti si sceglie di ripartire proprio dall’elemento più frequentato dai ragazzi, più “saturo” e si prova di ridargli peso, importanza, senso. Questa avventura pedagogica ri-sceglie le storie, il cinema, le trame mafiose ben sapendo che siamo tutti invasi dalle immagini. E, partendo dall’elemento più consueto, prova di ricercare il senso della legalità nel mezzo dell’inflazione di gesti che ritraggono il malaffare, provocando la generazione di parole sulla legalità in via processuale. Finalmente, insomma, si sceglie sì l’immagine ma per il senso che può assumere di nuovo, pienamente, attraverso un lavoro didattico e pedagogico ben istruito che sceglie come contesto il paesaggio entro il quale la mafia vive, insieme a tutto il resto. È così superata la risposta facile e si introducono i ragazzi, ben oltre il tema delle mafie, alle complessità del mondo.
Questo percorso pedagogico sulla cittadinanza e la lotta alle mafie ha luogo in un’Italia piena di esperienze di “educazione alla legalità”. E io, vivendo – ormai da due decenni almeno – nel bel mezzo di esperienze, mie e di tanti colleghi e colleghe, insegnanti ed educatori, su questo specifico fronte dell’educare in Italia, mi sono spesso chiesto: cosa fa la differenza tra un progetto sulla legalità che, alla fine, si limita a richiamarla e uno che, invece, ne riesce a rigenerare il significato entrando nei pensieri, nelle sensibilità, nelle emozioni dei ragazzi? La risposta sta proprio nella qualità dell’azione pedagogica, nella catena delle cose che si mettono in cantiere e nel loro significato. E qui va notato che vi è un nesso immediato tra il fatto che – in questa esperienza educativa – si ridà importanza a quella immagine lì e a quelle parole lì e il compito di ri-creare, in ogni ragazzo, un senso della legge. È un modo giusto di educare alla legalità con i ragazzi. Perché il contratto sociale, il presidio del limite, l’accoglienza della norma non vengono dati per scontati, assunti a priori ma vengono legati alla scoperta del come il giusto possa, nel mondo reale e complesso, opporsi all’ingiusto.
Insomma, per far conquistare ai ragazzi, dentro di sé, il senso della legalità – nelle età della crescita e della scoperta, soprattutto in adolescenza – e per poterne trasferire i significati nella scena del Paese al quale si inizia ad appartenere, non basta sentire i principi di legalità astrattamente declinati dai docenti. È indispensabile un processo più complesso e profondo. Bisogna ritrovare il senso di quei principi riandando, a ritroso, ben accompagnati, al senso primo delle storie umane. E “sorprende l’entusiasmo con cui i docenti riflettono su come impostare percorsi simili, in futuro”.