“Questa mi sembra che sia l’importanza del progetto che stiamo realizzando: trovare un nuovo spazio all’antica pratica di scambiare esperienze umane attraverso il cinema”.
Bruno Oliviero
Beatrice Mocenigo, laureata in Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo, intervista Bruno Oliviero, regista e docente di Cinema e Audiovisivo per Artists@Work.
A@W, progetto di formazione e produzione rivolto a 120 artisti,
è cofinanziato dal Programma Europa Creativa dell’Unione Europea, ed è promosso da Fondazione Unipolis, Atelier Varan, Cinemovel Foundation, Libera Associazioni, nomi, numeri contro le mafie, Udruzenje Tuzlanska Amica.
Candidature aperte fino al 22 novembre 2017.
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Prima di dedicarsi al mondo del cinema, lei ha studiato antropologia. Nei sui film, penso ad esempio al suo ultimo “Nato a Casal di Principe”, si è rivelato uno studio determinante? Secondo lei ci sono altre discipline che possono ritenersi complementari allo studio del cinema?
Tutto quello che ho fatto e quello che continuo a fare prima di fare “cinema” è determinante per me nel fare cinema. È talmente un’esperienza umana, quella del cinema, che qualsiasi cosa si faccia può essere riversata nei film che si fanno. Per me è un modo di restare in contatto con la realtà degli altri esseri umani, e la speranza è sempre che chi vede il film che fai a sua volta entri in contatto con se stesso e con le persone che lo circondano. In questo senso l’antropologia mi ha appassionato e mi appassiona, la curiosità verso gli altri e i metodi per rendere questa curiosità qualcosa di utile, trasmissibile e non morbosa è al centro delle mie preoccupazioni. Io ho fatto e continuo a fare documentari, e su quel terreno avere un sistema è fondamentale, avere delle griglie di comprensione che ti tengano lontano dalla morbosità è decisivo.
Nel film “L’intrusa” di Leonardo di Costanzo ha ricoperto un ruolo diverso, quello dello sceneggiatore.
In questo caso il suo approccio nei confronti del film e della storia è cambiato?
Direi di no. Stessa messa in questione continua, stesso passaggio per tutte le esperienze che si hanno (incontri, libri, racconti, film, ricette di cucina, parenti vicini e lontani…), stessa preoccupazione di rendere i personaggi credibili, interessanti e appassionanti. Si passa ovviamente sempre per se stessi, avendo un minimo di fiducia che se ti interroghi profondamente su cosa ti interessa, questo potrà interessare anche gli altri. Per me uno strumento di lavoro importantissimo sono le domande, rimanere sempre sulle domande cercando di costruire racconto con le domande e non con le risposte. Credo poi che se sono stato chiamato a scrivere “L’Intrusa” è anche perché con Leonardo c’è una visione comune, teorica sul cinema e pratica, politica, sull’umanità.
Che ruolo può avere il progetto Artists@Work nel percorso di un artista? Qual è secondo lei il ruolo del cinema europeo nel racconto dei cambiamenti sociali in questo particolare momento storico?
Io credo che praticare il cinema sia il solo modo per impararlo. E praticarlo in gruppo sia il solo modo di verificare che ciò che stiamo facendo comunica con gli altri. Anche per questo in fondo il cinema si fa quasi sempre in molti. Perchè come dicevo riguarda le esperienze della vita e le esperienze che facciamo come esseri umani sono sempre caratterizzate dalla presenza dell’altro. Ora un progetto come Artists@Work può dare proprio questa spinta, e qui forse rispondo anche alla seconda domanda, a confrontarsi con altre persone che fanno le stesse cose o cose simili in altri paesi e contesti e capire in che modo si può comunicare e si può trovare un terreno comune per raccontare il flusso del mondo che ci circonda. Un flusso che in parte stordisce, io credo, e nel quale il cinema ha un ruolo via via più marginale. Ma proprio questa mi sembra che sia l’importanza del progetto che stiamo realizzando: trovare un nuovo spazio all’antica pratica di scambiare esperienze umane attraverso il cinema. E questo incide sulla realtà sociale.
Cosa si aspetta dai partecipanti? La realizzazione di documentari o di cortometraggi più narrativi o sperimentali?
Per me è buona e anzi necessaria pratica non aspettarmi niente dai partecipanti. Essere aperto a tutti i contributi che arriveranno proprio per quello che dicevo prima. Io avrò un ruolo di mentoring e bisogna non aspettarsi niente per lasciare fluire al meglio le energie e le pratiche vive. Qui si tratta di sperimentare una pratica della condivisione degli sguardi, degli incroci tra le necessità di ognuno. E per fare questo la cosa più importante sono le individualità, le esperienze diverse, gli sguardi particolari, che siano forti o deboli non ha importanza. Ecco, per tornare alla tua prima domanda, in questo l’antropologia è una risorsa sempre: non ti devi aspettare niente altrimenti nello studio che fai vedrai solo il riflesso deformato di te stesso, invece dal progetto Artists@Work mi aspetto di scoprire e di aiutare ad esprimersi 20 nuovi sguardi sul mondo, lontani da tutto ciò che conosco. Questo mi piacerebbe un sacco che accadesse.